Qualcuno ha detto che se si dovesse scrivere un libro di mille pagine relativamente al prezzo di vendita, resterebbero ancora dei dubbi sull’argomento, con una sola cosa certa: non si sarebbe detto tutto.
Il prezzo di acquisto rappresenta il sacrificio economico chiesto ai clienti in cambio di un prodotto o di un servizio. E’ anche noto di come, parlando di beni di consumo, la decisione all’acquisto da parte del cliente avviene perché si considerano di valore superiore i vantaggi ed i benefici che si vengono ad ottenere, rispetto al costo da sostenere.
Troppo spesso, tuttavia, da parte delle imprese le politiche di prezzo vengono confuse con le battaglie al ribasso, che di per sé possono portare grossi svantaggi economici nel medio-lungo periodo. E’ nota la politica di un famoso marchio di sigarette, la West, la quale, verso i primi anni ottanta praticò, sul mercato europeo, una politica di low-cost, portando il prezzo del pacchetto da 1,90 euro (riferendoci alla moneta attuale) a 1,65 euro. Le vendite ebbero incrementi esponenziali e la quota di mercato di West passò dallo 0,6 al 10%. Il successo ebbe però breve durata perché i concorrenti reagirono con la stessa politica di ribasso. Solo dopo quattro anni l’intero comparto ritrovò una stabilità di prezzo. Casi recenti sono accaduti ad esempio nel settore dell’arredo. La guerra del prezzo al costante ribasso, da circa quindici anni a questa parte, ha generato un effetto devastante sulla redditività di quasi tutte le imprese di fascia media e medio-bassa. In questa nicchia tutte le aziende hanno praticato sconti su sconti, al fine di mantenere le proprie fette di mercato. Il risultato è che oggi gran parte delle imprese di questa fascia ha chiuso e le aziende rimaste in piedi si contendono la fetta di mercato del dopo crisi. Ancora un esempio. Una nota marca di telefonia mobile alcuni anni fa ha praticato offerte particolarmente vantaggiose sul mercato Business, fino ad allora il settore di gran lunga più redditizio rispetto a quello dei Privati. Molti utenti con partita IVA migrarono a questa compagnia, ma dopo poco tempo i competitor furono costretti ad agire allo stesso modo. In breve tempo ognuno riacquisì la propria fetta di mercato con il risultato di un notevole abbassamento di redditività per tutti gli operatori di telefonia mobile.
In poche parole la politica aggressiva sui prezzi è premiante solo nel breve periodo e quasi mai sul medio-lungo, a meno che l’impresa non abbia acquisito veri vantaggi competitivi e duraturi sui costi. Tali vantaggi competitivi possono derivare da:
- migliore tecnologia;
- economie di scala (a dire il vero, sempre più rare);
- revisione, non distruttiva, dei costi;
- riassetto organizzativo, logistico e produttivo (nonché economico) in ottica Lean Thinking.
Riassetto organizzativo, logistico e produttivo delle vendite
Oggi in un mercato sempre più globalizzato e dove, per una serie di ragioni (anche di ordine psicologico), è sempre più difficile intervenire nelle imprese cambiando gli assetti organizzativi acquisiti nel tempo ad esempio applicando i notevoli vantaggi derivanti dal punto 4, diventa più concretamente possibile operare su queste due direttrici:
- maggiore competitività sui prodotti e servizi offerti;
- praticare politiche di prezzo in relazione al mix dei prodotti offerti.
E’ il caso di aggiungere che una gestione dei prezzi imperniata su un ricarico generico, nella maggior parte delle imprese non è assolutamente premiante e porta l’impresa ad una disottimizzazione dei risultati. Ogni specifico prodotto o linea di prodotto deve avere politiche di prezzo differenti e non solo: i prezzi già stabiliti possono subire variazioni in base alle specifiche necessità. Di seguito si riporta l’esempio di una delle diverse esperienze dirette.
L’azienda in esame produce beni di consumo durevoli. La gestione del prezzo è da sempre stata focalizzata sulla determinazione dei costi complessivi (materiali+costi di lavorazione) e l’applicazione di un certo ricarico, quest’ultimo uguale per tutti i prodotti e su tutte le linee. La forza commerciale ha sempre messo in evidenza una politica di low-cost da parte di alcuni competitor sulla gamma di prodotto più economica. Puntualmente, ad ogni importante fornitura e soprattutto con le contract con imprese edili, le offerte venivano disattese poiché “fuori prezzo“. E’ stata quindi adottata una strategia che ha dato notevoli vantaggi economici ed ha restituito competitività commerciale all’impresa adottando politiche di prezzo differenziate in base alla linea di appartenenza del prodotto: su linee altamente competitive, sia dal lato qualitativo che dal lato tecnologico, la gestione del prezzo si è focalizzata su una più ampia marginalità unitaria, mentre sulle linee più economiche la strategia di prezzo è stata basata sul potenziale incremento dei volumi.
Al di là di tutto però, sia ben chiara una cosa: nessun prezzo di un prodotto, per quanto remunerativo possa essere, può garantire redditività ad una impresa. Un esempio banale renderà subito l’idea. Supponiamo una azienda mono prodotto che venda il suo articolo con un ricarico, rispetto ai costi complessivi, del 100%. Di per sé la singola redditività “numerica” è fuori discussione… ma se poi in un anno l’impresa vende pochissimi pezzi? Nonostante l’elevata marginalità unitaria è molto improbabile che l’impresa possa avere utili ma, viceversa, è molto più probabile che chiuda l’esercizio in perdita. Questo sta a significare che ci deve comunque essere sempre un rapporto tra prezzi praticati e volumi di vendita. Imprese che hanno margini unitari alti avranno certamente bisogno di vendere unità annue inferiori rispetto ad aziende che praticano prezzi molto bassi, ma in ogni caso per ciascuna delle due imprese vi saranno dei volumi minimi di vendita per poter pareggiare i propri costi gestionali ed avere utili.
La politica del prezzo
Detto ciò chiariamo anche che le politiche di prezzo e le relative modalità di gestione sono molteplici, senza sottovalutare il ruolo ricoperto dalla catena distributiva su cui si opta la scelta. Si passa dal prezzo psicologico (199,99 euro) ai bundling (prezzi accorpati di più prodotti), dai prezzi “civetta” ai prezzi “di entrata” in certi mercati, dalle strategie di prezzo singolo, alle strategie di prezzo sui volumi… Una corretta strategia di prezzo consisterebbe nell’affrontare in modo più scientifico e rigoroso l’aspetto willingness-to-pay (WTP), ossia la disponibilità all’acquisto a fronte di una variazione di prezzo, ma non sempre è possibile ottenere le adeguate informazioni e si finisce con il confrontare il prezzo di vendita con quello della concorrenza, ignorando, di fatto, i fattori differenziali che portano un’impresa a poter praticare una politica di prezzo differente rispetto ai competitor. Negli anni ottanta molte medie-grosse aziende hanno fatto un ricorso massiccio al Conjoint Measurement al fine di determinare il comportamento degli acquirenti in relazione ai vantaggi intrinseci nell’acquisto di un prodotto. Tutto ciò cercando di valutare il campo di oscillazione del prezzo.
Come determinano le imprese i loro prezzi di vendita?
Il modo più classico consiste da sempre nel calcolare i costi complessivi di un prodotto o di un servizio. Applicando poi un certo ricarico (o margine) è possibile pervenire alla definizione del prezzo di vendita. Facciamo un esempio e chiariamo subito il concetto: un prodotto che ha costi per materie prime di 10 euro, ha costi fissi aziendali che incidono il 45% sul fatturato, si vuole ottenere un margine sul prezzo del 10%, allora si calcola il prezzo (X) adottando una banale equazione di primo grado, ossia: X=10+0,45X+0,10X. Il prezzo risulta essere pari a 22,20 euro.
Ma è così banale calcolare un prezzo di vendita, anche volendo escludere implicazioni di marketing affrontati nella prima parte?
Guardando l’equazione indicata ecco che nasce il primo dilemma: il costo complessivo è stato determinato come 10+0,45X. Altre aziende adottano criteri differenti, ad esempio costo materia prima + manodopera + incidenza costi fissi, altre aziende utilizzano ancora altri criteri, magari costo/minuto per tempi di lavoro… ma la sostanza non cambia e la domanda resta: è logicamente corretto determinare il costo complessivo (chiamato Full Costing) di un certo articolo?
Due macro tipi di costo:
- quelli che possono essere imputati direttamente al prodotto (tipo materia prima, conto terzi, provvigioni, trasporti, royalties…) e per questo definiti costi di prodotto (o di servizio). Determinare ed assegnare questi costi ai vari prodotti è cosa piuttosto semplice, avendo a portata di mano le distinte basi ed altri elementi facilmente calcolabili con parametri percentuali;
- quelli che sono costi di struttura (stipendi, salari, costi amministrativi, ammortamenti, costi generali… e così via) e per loro natura, quindi, costi aziendali di periodo.
Questo ultimo raggruppamento costituisce il vero nodo cruciale della situazione, difatti ci si chiede come sia possibile associare questi costi (o parte di essi) al singolo articolo. La dottrina e la letteratura si sono sbizzarriti nel trovare sistemi e metodologie più o meno complesse per risolvere questo problema. Si passa dal vecchio metodo full costing con cost-drive i tempi di lavoro, al più moderno sistema ABC (Activity Based Costing), piuttosto articolato, attuabile solo attraverso apposito sistema informatico, e che richiede una notevole mole di raccolta dati. Oggi si parla anche di target-cost, riferendosi al fatto che i costi devono essere adatti al prezzo e non viceversa. Quindi occorre determinare se i costi complessivi di un certo articolo siano coerenti con il prezzo offerto dal mercato. Ma anche qui occorre “assegnare” dei costi fissi all’articolo.
Una cosa è certa: qualsiasi sistema che cerchi di rispondere al quesito di assegnare preventivamente dei costi di periodo (fissi) ai singoli articoli sarà certamente in errore per questi ovvi motivi:
- i costi fissi verrebbero implicitamente ripartiti in base ad un certo volume di vendita o di produzione che non è detto sarà tale;
- i costi fissi potrebbero essere, a consuntivo, superiori o inferiori rispetto a quanto stimato in sede di calcolo.
Da quanto detto al punto a) si evince anche un’altra considerazione che induce contraddittorietà e difficoltà di calcolo: i prezzi sono in funzione dei volumi, ma a loro volta anche i volumi sono in funzione dei prezzi che vengono applicati. Siamo nel classico caso del “cane che si morde la coda”.
E’ ovvio che “a consuntivo” è agevole determinare come hanno inciso i costi fissi di struttura sui singoli articoli, ma purtroppo quando vengono stabiliti dei prezzi e vengono definiti i costi su nuovi prodotti ci si trova inevitabilmente sempre in condizioni di dover fare delle supposizioni che puntualmente si rivelano errate: quanti di coloro che si occupano della determinazione dei prezzi hanno calcolato i costi complessivi dei vari articoli applicando poi margini di utili magari del 20% per definire il prezzo, ma constatando puntualmente che alla fine dell’anno l’utile aziendale non è effettivamente stato tale e, forse, l’azienda ha chiuso addirittura in perdita?
In effetti il problema di fondo nasce dal fatto che, per determinare il costo complessivo di un certo articolo, si ha la necessità di sommare costi di prodotto (per natura variabili) con una ipotetica incidenza di costi di periodo (costi fissi di struttura). E’ ovvio di come le tue tipologie di costo abbiano dinamiche e calcolabilità completamente differenti tra loro. E’ altresì vero che, determinando un costo di prodotto con la massima cautela possibile, ossia assegnando più costi fissi, rischieremmo di pervenire ad un valore troppo elevato e di conseguenza potremmo trovarci di fronte ad un prezzo di vendita assolutamente non adatto al mercato. A consuntivo, si parlerà poi di sotto-assorbimento o sovra-assorbimento dei costi fissi.
E’ stato detto che i costi si possono suddividere in costi diretti, che impattano sul prodotto e costi indiretti che impattano sull’impresa e sono parte integrante di un determinato periodo di tempo. Tanto per complicare un po’ le cose, esiste poi una tipologia di costo che, pur essendo costo di periodo, viene naturalmente associata come costo diretto di prodotto: si tratta del costo di manodopera diretta che, appunto per la naturale peculiarità, viene definito costo fisso specifico. Ora è necessaria una precisazione: ci si chiede, appunto, se la manodopera diretta sia da considerare un costo fisso o un costo variabile. I costi variabili, come detto, sono costi che variano al variare della produzione o della vendita. Nel breve periodo (1 anno) il volume di manodopera è quello stabilito a budget come costo standard, per cui a produzione o vendita 0 il costo di manodopera non è pari a 0 e quindi non può essere considerato di tipo variabile. E’ vero che la manodopera può essere diminuita o aumentata in base alle necessità nei vari anni, è vero anche che si può usufruire di meccanismi che tendono ad una riduzione di tale costo (contratti di solidarietà, cassa integrazione…), tuttavia rimane il fatto che, una volta stabilito da budget il relativo costo annuo, questo sarà un costo fisso da sostenere in quell’anno. Dal momento in cui il costo di manodopera diretta impatta direttamente sul prodotto così come i costi variabili, esso sarà definito, come già detto, costo fisso specifico.
Riepilogando
- si parlerà di costi variabili, indicando tutti quei costi che variano con il variare della produzione e/o della vendita e che sono assoggettabili al prodotto. Alcuni esempi: materia prima, costo conto terzi, provvigioni, trasporti, royalties, trasporti di terzi…
- si parlerà di costi fissi specifici, indicando tutti quei costi che non variano con il variare della produzione e/o della vendita ma che comunque sono assoggettabili ai prodotti o ad una gamma di prodotti. L’esempio più significativo (e per molte imprese, unico) è costituito dalla manodopera diretta. Tuttavia i costi fissi specifici potrebbero essere costituiti da una certa pubblicità, rivolta ad esempio ad una specifica gamma di prodotto oppure una certa campagna promozionale oppure dal costo leasing o di ammortamento di una certa macchina utensile che lavora solo una tipologia di articolo… e così via.
- infine si parlerà di costi fissi generici, indicando tutti quei costi che non variano con il variare della produzione e/o della vendita e che non sono assoggettabili ai prodotti. Rientrano in questa categoria praticamente tutti i costi fissi di struttura dell’impresa, quindi: ammortamento fabbricato, stipendi, salari indiretti (magazzinieri, capi reparto…), costi amministrativi, interessi passivi su mutui e finanziamenti, viaggi e trasferte, telefonia, spese legali, compensi… In pratica tutti quei costi che servono per gestire l’attività e che non variano al variare della produzione e/o della vendita.
In pratica, dal momento in cui si mette in piedi una attività d’impresa, occorre sobbarcarsi una mole di costi fissi, sia specifici che generici, anche se la fabbrica è ferma.
Fatta ora anche questa necessaria specifica, si può finalmente arrivare alla conclusione che è necessario calcolare tre “livelli” di costo per ogni prodotto:
- livello Full Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati tutti i tipi di costo: variabili e, in qualche modo, anche i costi fissi, sia specifici che generici;
- livello Direct Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati i costi diretti (tutti i costi variabili e la manodopera diretta, ma volendo anche altre tipologie di costo fisso specifico);
- livello Variable Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati i soli costi variabili, ossia praticamente solo quelli “certamente assoggettabili”.
I tre livelli saranno utili per eventualmente eseguire corrette strategie di pricing e massimizzare la redditività aziendale.
I tre livelli di costo sono:
- livello Full Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati tutti i tipi di costo: variabili e, in qualche modo, anche i costi fissi, sia specifici che generici;
- livello Direct Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati i costi diretti (tutti i costi variabili e la manodopera diretta, ma volendo anche altre tipologie di costo fisso specifico);
- livello Variable Costing. A ciascun prodotto vengono assegnati i soli costi variabili, ossia praticamente solo quelli “certamente assoggettabili”.
Si comincerà con l’affrontare il metodo Full Costing.
Il Full Costing, come già detto, assegna tutti i tipi di costo al prodotto, variabili e fissi.
Con il Full Costing i costi variabili diretti vengono assegnati ai prodotti attraverso la distinta base. Successivamente ed attraverso i cicli ed i tempi di lavoro, viene determinato il costo di produzione (se il metodo di calcolo è a valore aggiunto), così da assegnare anche l’incidenza dei:
- costi variabili indiretti,
- costi fissi specifici,
- costi fissi generici. Il ribaltamento di tali costi fissi sarà ovviamente “probabilistico” e non “certo”.
Esistono diverse metodologie per assegnare i costi fissi ed i costi variabili indiretti. Ciascun metodo utilizza dei coefficienti (definiti cost-drive) per assegnare la parte di costi fissi a ciascun prodotto o servizio. Parleremo dei due metodi maggiormente utilizzati:
- a valore aggiunto,
- a costo primo.
L’esempio che segue si riferisce al metodo di calcolo a valore aggiunto.
Per calcolare il costo di produzione vengono normalmente utilizzati i tempi di lavoro (in minuti) moltiplicati i costi/minuto (calcolati per ogni centro di costo). Nel calcolo del costo di valore aggiunto è inglobato anche il costo della manodopera. Riepilogo:
calcolo Full Costing di un articolo = costi variabili diretti + costo di valore aggiunto. Il costo di valore aggiunto viene determinato come:
Calcolo costo produzione sul centro A = minuti di lavoro in A x costo/minuto di A
Calcolo costo produzione sul centro B = minuti di lavoro in B x costo/minuto di B
… e così via
In tal modo, sommando tutti i costi di lavorazione di ciascun centro di costo, si perviene alla determinazione del costo complessivo di valore aggiunto a cui, aggiungendo costo materia prima e altri costi variabili diretti, si ottiene il costo complessivo del prodotto. Al costo complessivo così determinato, aggiungendo un certo ricarico (o margine), si perverrà al prezzo di vendita.
Per determinare il costo minuto occorre dividere tutti i costi fissi aziendali+costi variabili generici per i minuti prodotti dagli operai diretti. Esempio 1.700.000 euro di costi fissi (manodopera esclusa)+variabili generici annui, diviso 1.436.160 minuti prodotti dai diretti porta un costo/minuto di 1,18 euro. A loro volta i minuti prodotti sono stati calcolati moltiplicando le unità lavorative per 480 minuti/giorno e poi per il numero di giorni di lavoro annui. Per pervenire ai minuti prodotti basta moltiplicare i minuti lavorati per il coefficiente di rendimento. Esempio 17 unità x 480mingg x 220 gg x 0,8rendim = 1.436.160 min/annui
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